Sono un disabile vittima di una doppia discriminazione: questa è la storia di Giuseppe Serbino, 58 anni, palermitano. La sua vita ruota intorno a due episodi cruciali: l’amputazione della gamba sinistra e una condanna che gli è costata 4 anni e 8 mesi di carcere.
Giuseppe ora è libero, ha scontato la sua pena («fino all’ultimo giorno»), ma da quando è uscito dal carcere si è reso conto di avere di fronte un muro, di vivere un doppio disagio: la disabilità e il suo passato. Le due cose si sommano e di fatto rendono difficile l’esistenza.
Raccontiamo la sua storia perché se la disabilità è già un fardello che penalizza chi è costretto a districarsi in una giungla fatta da assurdi e spesso incomprensibili ostacoli burocratici e una infinita serie di barriere culturali e architettoniche, per chi ha anche il peso di un passato segnato da una disavventura giudiziaria le cose vanno anche peggio.
Ho perso una gamba, poi il dramma del lavoro nero
«Il 15 aprile del 1988 – racconta Giuseppe – sono rimasto vittima di un incidente stradale. Un camion ha travolto la mia auto. La conseguenza è stata l’amputazione della gamba sinistra».
«Sono uscito dall’ospedale e ovviamente ho cercato un lavoro, mi sono iscritto alle graduatorie protette del collocamento mirato. Non ho trovato nulla. E così sono tornato alla mia vecchia occupazione, l’unica che sapevo svolgere: guidare un escavatore».
Nonostante la disabilità Giuseppe non ha avuto problemi con i mezzi meccanici. Grazie alla protesi poteva muoversi, certo con qualche difficoltà. Il problema è stato un altro: ok, il lavoro c’è, ma senza nessuna assunzione e senza tutele. Lavoro nero. Una piaga che al Sud è ancora più diffusa. «Ma se non accetti, non c’è altro».
Condannato, dopo 4 anni di carcere la speranza di reinserimento lavorativo
Giuseppe ha continuato a lavorare sull’escavatore fino a quando non è stato arrestato. Era il 2016. «Sono stato condannato per estorsione a 4 anni e 8 mesi. Non serve a nulla dire che non avevo fatto niente e che sono stato ritenuto colpevole sulla base di un pettegolezzo, di una voce. Non serve anche perché non è quello il punto. Ho scontato la pena, fino all’ultimo giorno. Quando mi hanno scarcerato sono andato al collocamento mirato, risultavo ancora iscritto nelle categorie protette e dopo tanti anni ero anche piazzato bene in graduatoria. Insomma, avevo qualche speranza di trovare una occupazione».
Era il novembre del 2020. Due anni dopo, quando Giuseppe aveva ormai perso le speranze, viene convocato negli uffici del collocamento.
«Mi hanno detto che c’era un posto all’università di Palermo, cercavano qualcuno che avesse delle conoscenze di base per l’uso del computer. Quasi non ci credevo: avrei avuto per la prima volta un lavoro vero. Ma non solo: per la prima volta avrei lavorato seduto a una scrivania e non su un traballante escavatore. L’ho detto a mia moglie, eravamo così felici».
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Escluso dal lavoro per i precedenti penali
Giuseppe non poteva immaginare che dietro quella felicità si nascondesse un inganno.
«Sono andato all’Università, ho superato il colloquio, poi mi hanno fatto fare una prova al computer. È andata bene anche quella. Qualche giorno dopo il contratto di assunzione era pronto, prima di firmare dovevo compilare un modulo. Tra le domande c’era anche quella che riguardava eventuali precedenti giudiziari. Ovviamente ho scritto che sì, avevo avuto problemi con la giustizia. L’ho anche segnalato alla segretaria, che in parte mi ha rassicurato. Pensavo fosse tutto in regola, ho dovuto anche aprire un conto corrente e indicare l’Iban per l’accredito dello stipendio. Dovevo solo aspettare una telefonata per sapere quando avrei dovuto iniziare il lavoro».
Quella telefonata è arrivata, ma il contenuto della conversazione non è quello che Giuseppe si aspettava.
«Mi hanno detto che gli avvocati stavano esaminando la mia pratica per valutare se c’erano degli impedimenti per la mia assunzione».
Giuseppe non li avrebbe più sentiti.
L’amore della moglie, lo stigma della società
«Sono andato al collocamento per capire cosa stesse accadendo. Lì mi hanno fatto sapere che non mi avrebbero assunto. Il motivo? La mia condanna. Oltre al carcere i giudici mi hanno anche interdetto dai pubblici uffici per 10 anni. In pratica quando sarà terminata l’interdizione avrò quasi 70 anni. Ho chiesto a un avvocato se si poteva fare qualcosa, anche in considerazione della mia disabilità. Niente. Ho chiesto a un altro legale, la risposta è stata la stessa: non si può fare nulla».
Giuseppe sopravvive grazie alla pensione di invalidità civile. «Sono sposato ed è mia moglie che mi rincuora, mi dice: non ti preoccupare, un piatto a tavola lo mettiamo sempre. Ma certo è difficile andare avanti. Per il mio passato non ho diritto ad altre forme di sostegno, come il Reddito di cittadinanza. Ma io desidero lavorare: l’ho sempre fatto. Sono stato per 32 anni sugli escavatori, con o senza gamba. Mi sono fermato solo quando mi hanno arrestato. Oltretutto ho sempre lavorato senza un contratto. Mi dicevano: questo o niente. E da noi così funziona, purtroppo. Quindi mi ritrovo alla soglia dei 60 anni, senza contributi, senza una gamba e con una sentenza che blocca le residue possibilità di lavoro».

Disabile e pregiudicato, doppia discriminazione: “Così mi hanno cancellato”
«Sono tornato al collocamento – continua Giuseppe -. Mi hanno detto che l’unica chance è con i privati. Ho detto, perché no? Un lavoro è un lavoro. Ma sono passati mesi e non mi è arrivata nessuna notizia. Qui i privati assumono poco o niente. Ancora meno un lavoratore senza una gamba e in più anche pregiudicato».
«Ho deciso di raccontare la mia storia per un motivo: chiedo che venga valutata la condizione di tanti che sono nella mia situazione. Subiamo una doppia discriminazione. Una disabilità è già un fardello importante, ma se non ti arrendi e sei ancora in grado di andare avanti, continui a lottare. Se però a questo si aggiunge anche la condizione di pregiudicato, beh, diventa tutto più difficile, per non dire impossibile. Ma non ci arrendiamo, perché arrendersi è anche peggio. Ho pagato il mio debito con la giustizia: ora vorrei solo avere la possibilità di vivere dignitosamente».
Lanciamo un appello ai privati in ascolto. Non un lavoro, ma una chance che ogni uomo merita. Se volete mettervi in contatto con Giuseppe, potete scriverci a [email protected].
Se hai trovato questa storia interessante o ne hai altre da proporre, scrivici a invaliditaedirit[email protected]. Mettiamo in rete coraggio, speranza e cambiamento.
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