Ha la fibromialgia ma la credono pazza: è la storia di Katia B., che dopo 20 anni di sofferenza, ha deciso di uscire allo scoperto, di raccontare il suo viaggio nell’inferno di una malattia invisibile, subdola, sfuggente, misteriosa. Un viaggio segnato dai tanti ricoveri in cliniche psichiatriche. Tutti disposti per una diagnosi sbagliata, “malattia mentale”, un errore che ha lacerato per sempre la sua esistenza.
«Ho deciso di raccontare quello che mi è accaduto, perché non voglio che altre donne subiscano la mia stessa sorte. Lo faccio adesso, anche se so che definirmi in pubblico paziente psichiatrica significa rinunciare al lavoro e portarmi addosso la croce di uno stigma perenne. Ma non è giusto restare in silenzio, non è giusto per me, non è giusto per tutte le altre».
La fibromialgia, l’endometriosi, la vulvodinia, sono patologie diffuse. Ma ci sono pochi centri di cura e nessuna assistenza da parte del servizio sanitario. Sono definite malattie invisibili e ancora più invisibili sono le donne che ne soffrono. Non riescono a far comprendere quel dolore continuo che le perseguita. Spesso bisogna aspettare anni per una diagnosi. Eppure si tratta di patologie senza cura, fratture insanabili nella vita di chi ne soffre.
La fibromialgia è una patologia reumatica
extra-articolare caratterizzata da un diffuso dolore muscolo-scheletrico, da profondo affaticamento
e da numerose altre manifestazioni cliniche
che colpiscono diversi organi e apparati. In Italia
ha un’incidenza fra il 2% e il 4% della popolazione
e colpisce soprattutto le donne in età fertile
e lavorativa.
L’origine della fibromialgia: quel trauma subito a un anno
Nella vita di Katia sono due gli episodi chiave: il primo si è verificato quando aveva un anno di vita, l’altro pochi mesi fa, quando un reumatologo di Modena, ha fatto piena luce sulla sua patologia. Tra queste due date c’è stato un dolore nero e implacabile.
«In questi anni ho perso tutto, compresa la dignità. Sono stata rinchiusa in cliniche psichiatriche, che sono manicomi con un nome diverso, non sono stata soccorsa, mi hanno imbottito di psicofarmaci, strappato via l’adolescenza, le amicizie, un lavoro vero. Mi hanno portato via l’amore e la possibilità di avere figli. Tutto questo perché non sono stata curata per quello che avevo, non hanno mai voluto credermi».
La vita di Katia inizia a prendere la direzione sbagliata quando era poco piùdi una neonata.
«Mia madre era incinta di mio fratello – racconta -. Era all’ottavo mese, avevo poco più di un anno. È corsa in ospedale con mio padre perché il bambino aveva smesso di muoversi. Sono stata lasciata dalla nonna. Ho rivisto mia madre dopo un mese. Da poco ho capito la lacerazione che ha provocato quell’abbandono, il trauma che mi ha lasciato dentro e che non si è più ricomposto».
La prima diagnosi a 40 anni
L’altra data chiave è la visita da un reumatologo di Modena, esperto in fibromialgia. È accaduto pochi mesi fa, il giorno del suo quarantesimo compleanno.
«Gli è bastato poco per capire cosa avevo. Ha solo guardato il mio corpo, non ha dovuto fare altro. Ero lì con mia madre. Il medico ha detto che vede spesso casi molto gravi, ha ascoltato la mia storia e stabilito la diagnosi: soffri di una fibromialgia secondaria da disturbo post traumatico. Quando ha chiarito che la patologia poteva essere stata causata da un abbandono, dall’assenza prolungata di un familiare, mamma ha iniziato a piangere. Si è sentita in colpa. Ma lei non poteva fare altro: era incinta, doveva partorire».
L’origine di tutto è lì. Ma non solo. Di traumi ne ha subiti altri Katia.
«Quando mamma è tornata a casa mi rifiutavo di restare con lei. Fino ai 10 anni ho trascorso tante notti senza dormire. Non ci riuscivo, neppure con le gocce che aveva prescritto il medico».
Nel video di seguito la testimonianza di Michela Morutto, moglie di Paolo Piccoli, che ha scoperto di essere affetto da Alzheimer a 43 anni. Segui il canale YouTube di Invalidità e Diritti per approfondimenti e storie sul mondo della disabilità e dei diritti.
Il primo ricovero, poi curata con gli antidepressivi
Katia aveva 10 anni quando si è verificato un episodio che avrebbe potuto cambiarle la vita. O meglio: avrebbe consentito a un medico illuminato di capire la radice della sua sofferenza.
«Sono stata ricoverata in ospedale per una sospetta meningite. Avevo la febbre alta, mal di testa, l’irrigidimento dei muscoli superiori del collo, la schiena dolorante. Sintomi tipici della meningite. Mi hanno fatto due prelievi lombari, due, perché il primo era stato scambiato con quello di un altro paziente. Sono entrata in ospedale con una sospetta meningite e uscita senza una diagnosi. Ho raccontato l’episodio al reumatologo di Modena, non ha avuto dubbi: in quel momento, con quella sintomatologia, avrebbero potuto diagnosticare la fibromialgia».
L’esistenza di Katia avrebbe preso una piega diversa, segnata sì dalla malattia, ma avrebbe avuto la possibilità di affrontarla, senza dover subire per la superficialità di chi l’ha curata, decine di ricoveri in cliniche psichiatriche.
Da quel ricovero è iniziato un calvario senza fine.
«Le mie condizioni sono via via peggiorate. Dolori intensi alla schiena, tremori, una rigidità paralizzante, soprattutto di notte. Si sono aggiunti anche problemi di stomaco e ho iniziato a perdere peso. Sono dimagrita così tanto da essere curata per anoressia. Poi hanno deciso di curarmi per la bulimia. Ma non ero né anoressica, né bulimica. In quel periodo soffrivo molto a scuola, sono stata vittima di bullismo e ho subito una tentata violenza carnale».
«A 15 anni, mentre ero in palestra, ho avuto una crisi più acuta, tremavo tutta. Mi hanno portata in ospedale. Da quel momento hanno iniziato a darmi antidepressivi e neurolettici. Non ho più smesso di prenderli».
L’incubo delle cliniche psichiatriche: “Come i vecchi manicomi”
A Katia hanno affibbiato molte patologie psichiatriche: il disturbo di personalità, il disturbo borderline, il disturbo istrionico di personalità. Ed è stata curata per patologie di quel tipo con continui ricoveri. Sono i ricordi peggiori della sua vita.
«Non si può immaginare quello che accade lì dentro. Hanno proposto di mettere delle telecamere nelle case di riposo per gli anziani, ma dovrebbero metterle anche nelle cliniche psichiatriche. Sono come i vecchi manicomi, cambia solo il nome. Mi hanno lasciata paralizzata per ore nel letto, senza che nessuno mi desse un aiuto, mi hanno messo le mani addosso quando avevo il dolore, hanno preteso che camminassi, anche se non potevo. In un centro mi hanno lasciata senza cibo solo perché non credevano fosse vero che non ero in grado di muovermi. Dopo qualche giorno è arrivato il mio ragazzo, mi ha caricata su una sedia a rotelle e portata via. In quelle cliniche non c’è nessun rispetto per la dignità delle persone. Sei solo un pazzo, non vali niente, uno scarto dell’umanità».
Quel maledetto incidente stradale
Durante questo calvario Katia ha subito un altro trauma, non è dipeso dalla fibromialgia, ma ha avuto un impatto notevole sulla sua vita.
«Nonostante tutto mi sono iscritta alla facoltà di Scienze Motorie, non volevo arrendermi, lottavo con i denti per il mio diritto a una vita. Un giorno, avevo poco più di venti anni, ero su uno scooter. Mi sono schiantata contro un camion. Ho avuto problemi a una gamba, alla testa, alla bocca. Sono stata in fin di vita e mi sono ripresa solo dopo molti mesi».
Quell’incidente ha contribuito a far precipitare la situazione. I dolori, i tremori, la rigidità: tutto è aumentato. Proprio come le dosi di psicofarmaci e i ricoveri nelle cliniche. A volte anche molto lunghi.
Katia è stata dichiarata invalida al 75 per cento, non certo per la fibromialgia, ma per la malattia psichiatrica.
In questi anni Katia ha lavorato come baby sitter, ha fatto tirocini e ha vissuto un’importante esperienza a Psicoradio, una testata radiofonica che oltre a occuparsi di salute mentale ha una redazione composta da pazienti psichiatrici.
Nel 2016 per la prima volta un reumatologo va oltre la semplificazione della patologia psichiatrica. A Katia viene diagnosticata la spasmofilia da un neurologo e la sindrome di Sjogreen da un reumatologo, non è proprio la fibromialgia, ma si tratta di patologie che hanno almeno dei punti in comune. E comunque sono disturbi che rientrano nel campo di competenza di un di un neurologo e non di uno psichiatra.
Da quel momento in poi si inizia a parlare di fibromialgia. Una diagnosi che sarà poi confermata.
La fibriomalgia poteva essere diagnosticata a 10 anni
È quella la strada che porterà poi Katia, il giorno del suo 40esimo compleanno, a rivolgersi a un reumatologo del policlinico di Modena specializzato in fibromialgia.
Il medico dirà due frasi, che si incidono nella sua mente: «Sei malata da quando avevi un anno di vita» e «durante il tuo primo ricovero, a 10 anni, c’era già una evidente crisi di dolore fibromialgico».
Quando Katia ha sentito il medico affermare che lei ha sofferto per tutta la vita di fibromialgia secondaria da disturbo post traumatico da stress, ha avuto reazioni contrastanti.
«Provavo dolore, sollievo, ma soprattutto rabbia. Avrebbero potuto fare qualcosa già nel 1992, non hanno fatto nulla. Anzi, mi hanno fatto solo del male, continuando a curarmi come malata psichiatrica. Ora ho paura degli ospedali e dei medici».
La fibromialgia di Katia viene definita secondaria perché originata da un trauma. Ma tutti dovrebbero sapere che la fibromialgia primaria ha tra le sue conseguenze anche la depressione (e non il contrario), un altro lato della medaglia che viene spesso ignorato e lascia tante donne da sole a combattere su due fronti: il dolore fisico e quello mentale.
Questa malattia, lo ricordiamo, non ha ancora una cura. Nessuno ne parla, ma c’è un’alta incidenza di suicidi tra chi ne soffre.

Il mio sacrificio serva ad aiutare altre donne
Katia dovrebbe sottoporsi a sedute di psicoterapia con la tecnica dell’Emdr, che si focalizza sui ricordi del trauma e dell’evento stressante. Affrontare quindi all’origine la sua patologia. Ritornando a quell’abbandono, quando era poco più che neonata.
«Per me è troppo tardi, sono passati quasi 30 anni e non sono mai stata curata per quello che avevo. Se sono qui, se racconto quello che è accaduto – Katia trattiene a stento le lacrime – è per tutte le altre donne che stanno attraversando lo stesso inferno. Altre vittime di una malattia invisibile e che rende invisibile chi ne soffre. C’è un disegno di legge per il riconoscimento della fibromialgia come malattia invalidante fermo in Senato dal 2014. È rimasto chiuso in un cassetto per quasi dieci anni. Solo nel marzo scorso qualcuno ha ripreso a parlarne. Nel frattempo e nell’indifferenza di tutti tante donne hanno continuato a soffrire, spesso in silenzio. Non deve accadere più. Voglio che almeno il mio sacrificio, la mia vita fatta a pezzi sia servita a qualcosa, a salvare chi ancora può farlo».
Se hai trovato questa storia interessante o ne hai altre da proporre, scrivici a invaliditaedirit[email protected]. Mettiamo in rete coraggio, speranza e cambiamento.
Nella sezione “Storie” trovi anche: